SLEEPY HOLLOW: Skull 13
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05/05/2012Scavi archeologici alla Pure Steel. Dopo gli Zarpa tocca a un gruppo ingiustamente sepolto dal tempo e dagli eventi. Ventuno anni ci sono voluti per un sospirato secondo album. Sospirato per quei pochi che li ricordano come fulminei e onesti mestieranti del metal a stelle e strisce. Grande merito all'etichetta, ma ancora di più agli Sleepy Hollow che riescono a farsi notare con questo 'Skull 13' nel panorama musicale odierno grazie a canzoni imbevute nella tradizione, ma con un orecchio di riguardo per le novità (giusto un pizzico e sempre riferite al classic metal). Non ci sono tracce brutte, l'esperienza aiuta il gruppo ad essere quantomeno aggressivo e a catalizzare l'attenzione per tutta la durata del cd. Se la prova dell'ascolto saltuario, come divertissement, è brillantemente superata, non tutto il disco all'inverso può dirsi ispirato allo stesso modo. Le solite sgroppate di doppia cassa regolari e senza sbalzi d'umore hanno pure la loro età (Judas Priest e gran parte del metal teutonico), quando poi ci si mette ad inveire dietro al microfono con una voce che prende in egual misura da Halford e da Udo l'effetto caricatura è dietro l'angolo. La qualità strumentale comunque sopperisce a questa mancanza e allontana gli Sleepy Hollow dal paragone con gli svedesi Bullet. Curiosa e incoraggiante la metamorfosi del cantato che nelle ultime tracce è molto più originale e maestoso. Fortunatamente da "Bleed Steel" (che vive in funzione di un ritornello liberatorio messo su un piatto d'argento da una bridge molto riuscito) in poi i riferimenti ai Priest vanno affievolendosi, emergono melodie e atmosfere care ai Savatage degli anni Ottanta e a tutta una corrente di metal americano capitanata da Warlord, Helstar e naturalmente Attacker (ex band del cantante Bob Mitchell). "Epic" è tratta da un ipotetico terzo album degli Iron Maiden se questi fossero andati a registrarlo a New York collaborando con i Manowar. Peccato che nelle parti più veloci la batteria non sia affatto all'altezza e penalizzi il crescendo del pezzo. E' un po' una costante questo stile di Tommy Wassman: canonico nello speed, monotono nelle cavalcate, ma fantasioso negli stacchi e mid tempo. Lui è la forza di "Eternal Bridge", oltre ai riff forzuti di Steve Stegg che avrebbe avuto bisogno di un chitarrista ritmico più possente per dare spessore ai pezzi. A completare il quadretto il bassista dei Symphony X, mero allenamento per lui. Ma in fondo che senso avrebbe avuto un'impostazione prog in un disco del genere? Nessuno.
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