SONATA ARCTICA: Pariah's Child
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31/03/2014Sono sempre stati iper accessibili i Sonata Arctica, non giriamoci intorno, lo sono stati anche nella loro fase iniziale con Jani Liimatainen, in cui avevano forgiato un sound che non fosse freddo come quello degli Stratovarius e la marea di gruppi che si sono ispirati a dischi come 'Ecliptica' sono lì a testimoniare la loro importanza in un certo ambito del metal. Non ci interessa che per alcuni questo non sia nemmeno metal, fatto sta che da qualche album -come i grandi sanno fare- i Nostri hanno intrapreso nuove vie, culminate con l'anti-power per eccellenza di 'Stones Grow Her Name', coraggioso nel suo rendersi quasi hard rock. Un disco che non era piaciuto ai talebani del power e che non era stato ascoltato dai puristi visto che giudicano questa band una Cagata Arctica. Già dalla copertina, 'Pariah's Child' è una ripresa delle immagini e delle atmosfere del passato, un back in time che sulle prime sa tanto di "torniamo dai fan, in fin dei conto la pagnotta la guadagniamo grazie a loro", ma attenti perché l'ottavo disco dei finnici sa tanto di conferma ai piani alti del metal più mainstream e se non fossimo di fronte a buone o ottime canzoni ora parleremmo di debacle. Molti sono caduti facendo "ritorno all'ovile", nel genere ad esempio gli Angra, i Sonata no. L'album è pieno di idee, canzoni varie e molto diverse tra di loro, che vedono la miglior prestazione del chitarrista dal tempo della sua entrata in formazione e un Tony Kakko che sembra altro cantante rispetto al disco precedente. In generale le melodie sono più facili, languide, sognati, le tastiere essenziali alla riuscita complessiva, scandiscono puntualmente i momenti più vicini al prog (l'inizio di "The Wolves Die Young", insieme al basso virtuoso) o quelli più dolci ("Love", una ballata in realtà davvero poco riuscita e messa lì tanto per aprire la strada a "Larger Than Life"). A proposito del pezzo finale, si tratta di un'opera metal densa di emozioni che sa di Queen, Savatage, Tim Burton e buona a far capire che non siamo di fronte a una semplice band power. All'ottavo album è pure comprensibile che ci sia qualche calo o un paio di ritornelli tutti di mestiere, ma l'ispirazione del cantante ce li fa apprezzare comunque, istrionico e incessantemente occupato ad ammaliarci, capace anche di sorprese come le linee vocali più ruvide di "Half A Marathon Man" o la sorprendente "X Marks The Spot". Il risultato è una manciata di classici che faranno macello dal vivo, quelli con attitudine più happy. Non abbiamo singoloni come quelli del passato, ce ne faremo una ragione.
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