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ACID MOTHER TEMPLE

Ebbene lo devo ammettere, oggi 13 ottobre mi sono sentito veramente un cretino quando ho visto salire i Karl Marx Was A Broker sul palco e scoprire che anziché macchine e campionatori, erano un power trio strumentale che, con chitarra, basso e batteria ci hanno cementati vivi sul pavimento del planet, grazie anche ad un acustica e ad un amplificazione che ad ogni botta di cassa mi spettinava i quattro sopravvissuti che mi sono rimasti sul kranio.

Hanno riproposto integralmente 'Monoscope', che nella dimensione live mette prepotentemente in evidenza l’anima stoner del progetto che nessun dischetto di plastica, per quanto capiente, riuscirà mai a contenere l’irruenza e l’elettricità degli strumenti, inframmezzati dalle colonne sonore poliziottesche di Franco Micalizzi ed il sound dei Goblin in chiave futuristica.

Una gran sorpresa per i pochi intervenuti (non per noi che volevamo solo la conferma di quanto già sapevamo) e caldamente consigliati per chi vuole divertirsi, dimenarsi, viaggiare ed essere bastonato dai bassi.

Mentre salgono sul palco gli Acid Mother Temple il club si riempie gradualmente, e ci ritroviamo di fronte degli improbabili personaggi usciti da una macchina del tempo che ci riporta indietro alla cuspide tra la fine dei sixties e l’inizio dei seventies.

Immagine amplificata da un improbabile abbigliamento vintage con tanto di parruccone rosa, make up ed abbigliamento femminile (da parte di uno dei due chitarristi, uno dei tanti elementi calamitanti del gruppo, con annesso spettacolino sexy durante il quale ha messo in bella mostra le sue parti intime, prendendo come modello il nuovo look di Genesis P. Orridge – Psychic TV); il leader con i suoi lunghissimi capelli lisci e bianchi (sembrava fuoriuscito dalla saga del signore degli anelli) restava imperterrito dietro le macchine ed il moog (se fosse arrivata la fine del mondo con tanto di terremoto e tsunami annesso, si sarebbe semplicemente scansato) ordiva modulazioni di frequenza onnipresenti che nulla avevano a che spartire con i viaggi psichedelici senza meta, scanditi da divagazioni free form e nonsense, del resto della band (pareva che ogni membro suonasse lo strumento in una dimensione che non collimava assolutamente con quella degli altri compagni di ventura) per poi rientrare nella realtà e spararci dritti in faccia dei pezzoni sabbathiani (hanno coverizzato ‘The Wizard’ dei Black Sabbath) ed una versione nipponica di Jimi Hendrix.

Molto interessanti i rallentamenti di velocità nei quali incupivano i suoni delle chitarre finendo i territori doom e postcore per poi sorprenderci con dei motivetti pop ottantiani ripetuti all’infinito, e divertendosi a scimmiottare il motivetto di ‘Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo’ e persino delle sinfonie elettroniche a là Jean Michel Jarre. Un film folle girato in presa diretta di fronte ai vostri occhi che alla fine dell’ora e mezza di concerto vi lascia un ronzio nelle orecchie che più o meno fa così: uiuiuiuiuiui ghjklsdhf uiuiuiuiui qwkxcj ghxjyuixjh.

Si ringrazia Eugenio Stefanizzi per la gentile concessione delle foto.

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