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FRONTIERS ROCK FESTIVAL 2016 - DAY I

Riassumere in un solo live report quello che è stato (e che, grazie all'appena avvenuta conferma da parte della label partenopea, continuerà ad essere anche nel 2017), il Frontiers Rock Festival è cosa senza dubbio impossibile. Impossibile perché convertire in parole le emozioni di un evento unico in Italia è un'impresa degna di una scalata da cima Coppi, impossibile perché l'elevata qualità generale dell'organizzazione ci ha permesso di competere (in uno dei RARISSIMI casi) con ben più blasonati eventi esterni ai nostri confini, e impossibile anche per un momento simbolo rimastomi davvero nel cuore, e cioè le lacrime di mesta gioia versate da un gruppo di felici, ma inconsolabili fan al termine della seconda giornata di questa meraviglioso manifestazione.

Riallacciandomi invece alla cronaca più "spiccia" relativa alle band in programma, posso dire con tutta franchezza di essere rimasto piacevolmente stupito dalla performance di apertura dei No Hot Ashes, non particolarmente attesi dal sottoscritto anche a causa della penuria di informazioni ad essi relative sin qui rilasciate a livello mediatico. Quello che è scaturito dalla loro prova live è stato un piacevole concentrato di puro hard melodico anglosassone, spruzzato qua e là da interessanti inserti AOR, e ben interpretato da una band risoluta, quadrata e con un singer di buon livello. Promossi, senza dubbio alcuno.

La stessa cosa, purtroppo, non si può dire dei finnici Shiraz Lane: se infatti la loro proposta è risultata un solido concentrato di graffiante hard-rock non scevro di elementi sleaze e street, il singer Hannes Kett non è purtroppo riuscito a rappresentare, con le proprie parti vocali, il miglior veicolo di output dei propri compagni di avventura, sembrati invece più che raggianti a livello strumentale. Il potenziale c'è ed è evidente, ma va ancora senza dubbio affinato a dovere.

La prima cartuccia seria, però, viene sparata con l'accesso on-stage dei Find Me: il combo guidato dal professionale Daniel Flores, infatti, ha sciorinato una grande quantità di pura energia scandinava, impreziosita senza mezzi termini dalla grande classe a stelle e strisce di un Robbie LaBlanc in forma smagliante, un singer di livello davvero superiore in grado di spiccare in un bill caratterizzato da frontmen tutt'altro che sprovveduti. L'affiatamento tra i vari componenti del gruppo è stato evidente (e questo nonostante si tratti "solo" di uno studio project), e l'entusiastica risposta dei fans presenti altro non ha fatto se non confermare la mia personalissima impressione.

Sempre parlando di grossi calibri, i Treatment sono stati, senza timore alcuno di smentita, una vera e propria bomba atomica. Quella sciorinata dai rocker inglesi è stata una macchina da guerra live, un bastardissimo concentrato di puro hard-rock d'annata a metà tra reminescenze classiche e sostenuti richiami rock 'n' roll, davvero sensazionale nel colpire i poveri malcapitati di turno presenti al di là delle transenne. Senza se e senza ma, tra i migliori dell'intera kermesse.

Purtroppo, e lo dico con tutto il dolore nel cuore da loro datato fan, i Drive She Said si sono invece dimostrati la vera e propria delusione della giornata, una band che a dispetto della propria trentennale storia si è purtroppo rivelata impacciata, spaesata e tutt'altro che incisiva. Vero e proprio punto debole dell'esibizione va assegnato al povero Al Fritsch, purtroppo oramai in perenne debito vocale per quanto riguarda le tonalità più alte, e insalvabile nemmeno grazie ai disperati interventi di supporto da parte di nomi blasonati quali Fiona e Terry Brock: un vero e proprio peccato.

E se parliamo di esibizioni che hanno diviso alla grande i pareri dei tanti fan accorsi, quella degli scandinavi Treat è stata senza dubbio una delle più chiacchierate: quadrati e potenti come davvero pochi altri, i rocker svedesi hanno purtroppo deluso parte della platea a causa dello smodato utilizzo di parti campionate per buona parte della propria setlist, cosa che non ha personalmente infastidito più di tanto il sottoscritto, forse anche a causa di una scaletta studiata alla perfezione (in cui hanno trovato posto gran parte dei migliori episodi sonori di tutta la loro onorata carriera).

Manca solo un nome prima della definitiva chiusura del sipario in relazione al primo giorno del festival, fiato alle trombe quindi per i leggendari (almeno per 2/4 vista la prematura scomparsa di Jimmy Bain accorsa subito dopo le registrazioni del debut cd) Last In Line, autori di una prestazione live di grandissimo livello. La storica band di Ronnie James Dio, infatti, ha confermato in piena regola il blasonato status artistico dei due storici elementi della formazione (Campbell/Appice), un duo che, ben completato a livello strumentale dal bravo Phil Soussan, ha trovato nel potente vocalist Andrew Freeman il perfetto terminale offensivo di un vero e proprio carro armato musicale, capace di asfaltare ogni singola dichiarazione atta ad identificarli come una mera e semplice cover band. Sensazionali, come davvero pochi altri nella scena odierna.

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