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FRONTIERS ROCK FESTIVAL IV - DAY I

Tentare di spiegare a parole quello che in sole quattro edizioni è divenuto il Frontiers Rock Festival, sinceramente, è cosa particolarmente complicata (ed in parte quasi insensata). Ho sentito assegnare molte definizioni all'evento principe di casa Frontiers, ma ce n'è una in particolare che ho voluto fare mia avendola condivisa con amici, artisti e addetti ai lavori del settore: il Frontiers Rock Festival rappresenta in qualche maniera il "1 Maggio" dei fan di tali sonorità musicali, una sorta di festa nazionale divenuta appuntamento atteso e bramato già ad inizio anno sia dai follower nostrani, sia dai fan provenienti dalle lande oltre confine. E questo sia grazie al lavoro del team di casa Frontiers, capace di migliorarsi di anno in anno per quanto concerne la professionalità offerta agli avventori, e sia soprattutto in relazione al lavoro del vero "general manager" Primo Bonali, capace a questo giro di mettere in piedi un tessuto organizzativo da fare veramente invidia a quello di tanti blasonati eventi di estera estrazione.


DAY II - 30 APRILE


PALACE
L'apertura del primo giorno viene affidata ai Palance, band fronteggiata dall'omonimo guitar-player e singer, il cui debutto (prodotto da Daniel Flores) è stato rilasciato lo scorso anno. Purtroppo, e mi duole dirlo da deciso sostenitore degli artisti in primis, sin dalle prime note è chiaro che Michael Palace è da considerarsi tutto fuoriché un singer, vista la prestazione vocale abbastanza imbarazzante a cui ha costretto tutti gli avventori di buon'ora della kermesse. Niente da dire in relazione alle sue qualità chitarristiche (il suo coinvolgimento in una moltitudine di progetti di casa Frontiers parla chiaro), ma per quanto concerne il ruolo dietro al microfono la delusione è stata cocente per tutti i presenti del pubblico che a poco a poco abbandonano il posto sotto al palco. Rivedibili, e non poco.


ONE DESIRE
Di ben altra pasta è lo show offerto dagli One Desire: incisivi e convincenti come sul notevole debut album, i rockers scandinavi sciorinano una prova on-stage assolutamente degna di nota, confermando a piene mani tutto quanto di buono si è sentito nel loro acclamato primo lavoro in studio. Band quadrata, "tight-musicianship" come direbbero i nostri colleghi d'oltremanica, e un approccio esecutivo sempre attento a mettere in primo piano la melodia dei brani, cosa che ha permesso al gruppo finnico di strappare applausi e consensi in toto dal pubblico tornato a rinfoltirsi in maniera decisa all'interno del Live Club. Bravi!


CRAZY LIXX
C'era notevole curiosità da parte del sottoscritto sullo show dei Crazy Lixx, vuoi per il notevole movimento in "entrata-uscita" dei membri della line-up della band nell'ultimo anno, vuoi per la loro granitica amalgama mostrata nei precedenti appuntamenti on-stage, che speravo sinceramente di rivivere in seguito agli avvenuti assestamenti del gruppo. Il risultato è stato assolutamente graffiante e degno di nota come nella loro migliore tradizione, e le tonnellate di melodia dei brani estratti dal loro nuovo "Ruff Justice", i quali hanno brillato di luce propria in una setlist condita dalle loro migliori perle in studio. Danny Rexon frontman di razza, di come se ne vedono davvero pochi di questi tempi.


ECLIPSE
Potrei liquidare l'esibizione degli Eclipse con "tutto assolutamente confermato", nel senso che tutti coloro che hanno avuto la possibilità di gustarsi il folle combo guidato da Erik Martensson almeno una volta sa già cosa intendo dire. Per i pochi che non lo hanno tristemente fatto sino ad ora, la frase di apertura nasconde la quasi ovvia conferma di qualità di una band capace di prestazioni on-stage potenti e di alto livello, caratterizzate da chitarre sature al servizio di un muro di suono notevole, e a questo giro (ad opinione del sottoscritto) anche qualche base di troppo che ad un nome di tale livello non dà assolutamente alcun valore aggiunto. Da segnalare l'ospitata di alto livello del nostro Michele Luppi in un bellissimo siparietto che ha divertito e "gasato" i fans presenti: Erik Martensson si volta verso Michele facendo cenno con la mano di saltare in chiusura del brano "Jaded", col risultato di comprendere, da parte di Michele, di "alzare" la tonalità vocale di esecuzione delle sue vocals di accompagnamento, che vengono scagliate con potenza su tonalità che ben pochi, nella scena, possono permettersi di raggiungere. Bellissimo e divertentissimo!


REVOLUTION SAINTS
Inutile sottolineare la profonda attesa verso la super-band americana, in cui faceva capolino l'aggiunta del maestro italico Alessandro Del Vecchio a completamento di una line-up di livello top: spesso, infatti, i grandi nomi non sono garanzia di esibizioni di livello elevato dal punto di vista emozionale, cosa che sono felicissimo di smentire in relazione a quanto regalatoci dai Revolution Saints sul palco del live club. L'inizio, con Deen impegnato nel doppio-ruolo di drummer e vocalist, non è perfetto a causa della bassa resa sonora del microfono a cuffia, ma il livello generale dell'esibizione è subito alto e si percepisce un'unione di band che va ben al di là del classico "progetto studio" (e questo nonostante un Dough Aldrich non sempre in prima linea nel colpo d'occhio a livello "emotivo"). La situazione migliora decisamente quando Deen si sposta "up-front" dietro al microfono, cosa che gli permette di mostrare a tutti la propria elevata "pasta canora", soprattutto nei meravigliosi duetti vocali con un Jack Blades in palla come pochi altri. Menzione d'obbligo all'orgoglio nostrano Alessandro Del Vecchio: tutti i più attenti hanno potuto notare come la direzione generale dell'esibizione, come ben evidenziato dagli sguardi sempre a lui rivolti dai propri blasonati compagni di palco, fosse sempre e puntualmente a suo carico. E' quindi forse davvero arrivato il tempo del riscatto dei nostri talenti nostrani in un genere che, storicamente, non è mai stato ad appannaggio degli artisti provenienti dalla nostra penisola.


TYKETTO
Allora andiamo con ordine: esibizione prevista con esecuzione in toto di un capolavoro del genere come "Don't Come Easy", Danny Vaughn in forma smagliante, totale assenza di basi, e band di livello clamoroso: la ricetta dello show perfetto, un po' paragonabile (a livello culinario) ad un piatto cucinato da Cannavacciuolo in persona all'interno della sua roccaforte di Villa Crespi. Davvero mi sento in dovere di aggiungere poco altro, chi c'era sa bene quello che si è vissuto nel lasso temporale a firma Tyketto all'interno di un Live Club tronfio di fans e di energia, e per quelli che volontariamente hanno scelto di perderselo consiglio una camminata di cinque chilometri a carponi sui ceci per espiare una colpa tanto imperdonabile quanto vergognosa. Uno show clamoroso, speciale ed indimenticabile, uno dei punti più alti di questo Frontiers Rock Festival targato 2017.


STEELHEART
Dalle stelle dell'esaltazione mentale e sensitiva, alle stalle di un'esibizione fredda, lineare, e aggiungerei anche un po' strafottente. Prendete una grande band degli anni che furono, lasciategli la possibilità di mettere in piedi un show improntato su una setlist rivedibile, e accettate il fatto di trovarvi davanti ad artisti che si sentono star ed accettano solo di essere considerate come tali: questo il triste e "metallico" sunto dell'esibizione degli Steelheart a Trezzo, autori di una prova rumorosa, tecnicamente valida, ma colpevolmente distaccata a livello di coinvolgimento personale. Il classico show che lascia il tempo che trova, e per cui si pensa bene di lasciare la location qualche minuto prima del suo termine onde evitare la coda di auto all'uscita.

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