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HEAR THE CHANGE FESTIVAL

Provare a creare eventi musicali di un certo interesse è sempre dispendioso, in termini economici ed organizzativi. Questo dispendio di energie viene ulteriormente moltiplicato quando si cerca di coinvolgere band che propongono in primis musica inedita; in seconda battuta, che forse accentua ancora di più il livello di difficoltà, proponendo generi particolari come il post-rock, che a livello internazionale è visto con un grande interesse, mentre in Italia è un genere che, nel periodo recente, sta conoscendo un interessante sviluppo, che però rimane ancora figlio preponderante dei grandi nomi della scena, quali God Is An Astronaut, Explosions In The Sky, MONO, per fare solo qualche nome tra i più importanti. Da qualche anno, in Italia, e grazie soprattutto alla cerchia di contatti e di conoscenze che si sono ampliate ed evolute, una realtà come Antigony Agency sta cercando di diffondere il verbo del post-rock in Italia, cercando sempre di coinvolgere realtà di un certo calibro, puntando sempre ad uno sguardo internazionale. Hear The Change Festival si pone proprio questo obiettivo: cercare di guardare sempre oltre, sempre avanti, verso un’ottica costante di cambiamento. E nonostante la risposta del pubblico (come nella gran parte di eventi simili in Italia, anche di altri generi) accorso all’HT Factory di Seregno venerdì 18 ottobre non sia stata sempre delle migliori, prevale sempre l’ottimismo.

Iniziano la serata una band recentemente sotto le cure di Antigony Records, gli umbri John Malkovitch, che propongono proprio grazie all’etichetta il nuovo lavoro ‘Hyenaeh’, un lavoro dove il post-rock si fonde con il post-metal, cercando sempre di essere estremamente propositivi ed impattanti. Una caratteristica che sul palco brianzolo è sembrata trasparire in maniera immediata, dove soprattutto è il basso a farla da padrone, dettando le sequenze, assieme alla batteria, di tutto il percorso. Rumorosi e convincenti, non disdegnano di sferrare grandi colpi che ci entrano subito.

Arriva poi il momento del primo gruppo internazionale della serata, il collettivo norvegese Spurv, i quali hanno negli ultimi anni pubblicato due album di grande qualità emozionale. Da subito balzano all’occhio la presenza di tre chitarre e di un trombone, ma non lasciatevi spaventare. Ognuno di questi gioca un ruolo importante nella buona riuscita del live. Ciascuna chitarra riesce a non sovrapporsi alle altre facendo lo stesso lavoro, bensì cercando sempre di essere estremamente varie nel corso dei brani, e cercando di rendere ben riconoscibili le parti soliste rispetto alla base ritmica. Al contempo, le parti di trombone (quando sono state chiamate in causa) sono sempre state ben inserite e importanti nella costruzione di ciascun pezzo, dando anche quella sensazione di leggiadra freschezza derivante dalle atmosfere nordiche della loro provenienza. A tutto ciò si aggiunge la buona presenza scenica della band, sempre incentrata sul coinvolgimento nei confronti del pubblico. Ottima impressione.

Si ritorna in Italia per apprezzare i livornesi Platonick Dive, anche loro seguiti recentemente da Antigony Agency e presenti come spalla nella recente tappa milanese dei God Is An Astronaut. Con loro, sembra di entrare in quei club notturni saturi di luci al neon e di samples registrati mandati in loop. In pratica, è questa la loro proposta principale, sintetizzata bene sia nell’ultimo album ‘Social Habits’, che negli album precedenti, in cui i synth e i campionamenti sono protagonisti principali, assieme alla disinvoltura della batteria, rispecchiata in questo live sia dal punto di vista strettamente musicale, ma anche da un punto di vista scenografico, aspetto che il batterista cura con estrema attenzione, destreggiandosi in movenze che non possono non attrarre. In generale, anche la performance dei Platonick Dive risulta buona, dove è presente il post-rock classico, ma dando quel sapore di originalità in più inserendo proprio queste parti da club-dance che, probabilmente, sono quelle che hanno colpito più nel segno.

Si arriva al primo nome davvero grosso della serata, gli americani Tides Of Man. Autori l’anno scorso di un album come ‘Every Nothing’, dove è presente una certa leggiadria di fondo che ci fa sognare, nella serata dell’Hear The Change questa leggiadria l’hanno parzialmente lasciata da parte, prediligendo invece le frequenze più sostenute e i decibel importanti. Accompagnati da uno sfondo a tinte bianche e nere, i ragazzi americani alternano momenti di estrema possanza strumentale ad elementi più rarefatti, cercando sempre una continuità di fondo e mantenendo sempre alta l’asticella dell’attenzione. L’apprezzamento del pubblico, che risponde degnamente alle loro note, ne è la naturale conseguenza.

Si chiude la serata con una realtà che si può annoverare tra i pesi massimi del genere, ma che per diverse ragioni, forse anche per loro scelta, sono sempre rimasti in una cerchia underground che intendono prediligere. Rispetto ai precedenti lavori, il nuovo album dei polacchi Tides From Nebula ‘From Voodoo To Zen’ contiene diversi elementi più spinti rispetto al passato, non crogiolandosi quindi sulla loro consolidata aurea di post-rock spaziale, ma inserendo (volendo mantenere la dimensione astronomica) diversi meteoriti al loro sound, grazie ad uno più spinto dei synth a discapito della seconda chitarra. Un elemento, quest’ultimo, che nel live è sembrato a tratti mancare, sia in qualche brano del nuovo album, che in alcuni dei brani più rappresentativi della band, come “The Lifter” e la conclusiva “The Tragedy of Joseph Merrick”, che seppur eseguiti in maniera ottima, sarebbero stati più completi con una chitarra in più. Ma questo, alla fine, rimane un puro dettaglio, perché, come detto, l’attuale trio si è dimostratto assolutamente all’altezza della loro fama. Accompagnati dalle ormai consuete astine che si illuminano ad intermittenza, sono stati sempre coinvolgenti e precisi; in questa sede, l’uso dei synth da parte di Maciej Karbowski e Przemek Weglowski è risultato essenziale nella proposta della band, e che ha in parte sopperito alla “mancanza” chitarristica appena citata. Una band che merita ancora di essere seguita, soprattutto per osservare se i loro sviluppi futuri nell’ambito della direzione musicale rimangono quelli attuali, oppure se hanno pensato anche loro che ci possa essere spazio per ripensamenti o nuove evoluzioni.

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