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KATATONIA

Serata particolarmente ricca quella dell’orion che ha visto i Katatonia adornarsi di altre due formazioni che molto stanno facendo parlare delle loro opere. Junius ad aprire, probabilmente non hanno avuto la possibilità di fare il soundcheck perché specie nei primi brani si sono succeduti diversi inconvenienti tecnici ed il sound era sporco; la batteria nei colpi sul rullante sembrava scoppiare, ma nel prosieguo, come spesso succede, tutto si sistema anche se per la voce purtroppo non basta il mixer, qualche steccata sui vocalizzi acuti c’è stata. Due brani particolarmente ispirati, dotati di una gran melodia tendente al sinfonico "Trascend The Ghost", ci fa ricredere nonostante qualche altro problema continui a perdurare. Hanno saputo abilmente fondere il post rock con il postcore, lasciando una fitta nebbia sul dove finisce l’uno ed inizia l’altro. Degni di nota. Seguono gli Alcest (che hanno impiegato un bel po’ a sistemare la strumentazione sul palco), venuti ad ammaliarci con il loro shoegaze metal dove le chitarre, tagliate nei suoni acuti, carezzano parimenti alla voce malinconica, ma proprio quando ci stiamo abbandonando alle suadenti note all’improvviso uno screaming ci fa sussultare per lo spavento e la ritmica si fa più vorticosa. "Souvenir D’autre Monde" continua nel solco tracciato sinora, con melodie sinuose adagiate su mid tempos come in una sorta di viaggio nel limbo (o in trance); "Percees De Lumiere" tributa un ode allo screaming che ha il suo trademark in Carmelo Orlando dei Novembre, supportato da arpeggi puliti di chitarra. Chiude la fase rem "Summer’s Glory" (non poteva essere altrimenti). Melliflui. Tutta un'altra storia con i suoni e il volume dei Katatonia, quello che fino a poco tempo prima era stato precario diventa maledettamente calibrato alla perfezione; come prevede la prassi, in concomitanza con l’uscita di un nuovo lavoro, il compito di aprire le danze spetta agli estratti di quest’ultimo, la frase: *In the weak lights I saw you..* introduce "The Parting", seguito da "Buildings", ci scartavetrano per la possenza con cui vengono eseguite. Una versione più dura di "Deliberation" segue il passo delle prime due riuscendo a far partire i cori del pubblico durante il ritornello di: *when you let me in let me justify my only love*; Jonas Renske si presenta ancor più ‘insalamito’ rispetto all’ultima apparizione di due anni fa all’Alpheus, segno che lo sport della forchetta lo vede ancora come accanito sostenitore. Il singer ha spiegato che l’inizio del concerto è stato posticipato rispetto a quanto previsto dal running order a causa della rottura del tour bus che gli ha fatto passare uno dei giorni peggiori della sua carriera. "The Racing Heart" è con poche ombre di dubbio il punto più basso della prima parte di set, con quelle melodie melense e prive della forza d’urto sprigionata nei brani d’apertura. Primo salto verso i vecchi lavori: "Teargas" da 'Last Fair Deal Gone Down' non corrisponde purtroppo ad una performance vocale pari al livello raggiunto su disco. L’eccitazione dei presenti tende a scemare causa la non perfetta rendition del vocalist che sembra aver benzina solo per le tracce dell’ultimo lavoro; come trascinate da una forza d’urto a cui non si può porre resistenza, tante teste si muovono a ritmo di headbanging grazie a "Soil’s Song" con quei riff ribassati al limite del death seguiti dalle armoniche: devastante. Da 'Viva Emptiness': "Omerta" (altra scelta di dubbio gusto, a nostro parere uno dei pezzi meno riusciti di quel gran disco) cancella immediatamente quanto di buono ci aveva regalato la traccia precedente. Nuovamente 'Last Fair...' con "Sweet Nurse" e Jonas torna a steccare; si salta ancora più indietro nel tempo fino a 'Discouraged Ones' (dai metallari ribattezzato: The Scuregged Ones) con "Deadhouse" brano più atmosferico e malinconico per una maggiore presenza delle tastiere. E siamo ai bis: "Ghost Of The Sun" da 'Viva Emptyness' e "July" da 'The Great Cold Distance' sono stati i più tellurici del live, ma la curva dell’attenzione era inevitabilmente scesa a causa di un volume esageratamente alto (che stravolgeva la delicatezza della maggior parte delle tracce) e di quanto precedentemente descritto; paradossalmente "Dead Letters" da 'Dead End Kings' sembra esserne la miglioria prima della morte, facendo tornare in vita il cadavere che ha dimostrato di essere ancora alive and kicking come dimostrato dall’intro alla Meshuggah di "Forsaker" che sveglia le coscienze fin li assopite; "Leaders" (un tempo) da 'The Great Cold Distance' chiude il tutto. Prova interlocutoria (più ombre che luci) inficiata dalla scelta dei brani (specie quelli tratti dai vecchi lavori) e per le reali potenzialità che hanno dimostrato più volte di possedere. Rimandati a quando chiudevano i live con "Murder" tratto da ‘Brave Murder Day’. Si ringrazia Massimiliano Abbatelli per la foto di copertina.

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