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BLACK SABBATH: MASTER OF REALITY

data

25/01/2008
95


Genere: Hard Rock
Etichetta: Warner
Anno: 1971

Le idee del debutto e la concretizzazione formidabile di ‘Paranoid’ portano inevitabilmente al lavoro di autocelebrazione, o meglio, a un lavoro in cui la band, con un ingresso trionfale nella storia, celebra se stessa, con un disco che va dritto al dunque, tutto frutto, tutto polpa, composto sostanzialmente da sei pezzi, tutti essenzialmente più grezzi e diretti (più semplici? Per certi versi si,ma non per questo più leggeri) che raccolgono il meglio della proposta dei Black Sabbath, quindi non idee e stile, ma canzoni vere e proprie, tra le più interessanti e tra le più ispirate di tutta la storia dell’hard rock e del metal, o del doom, che tra i solchi vinilici dei Black Sabbath prende le forme. L’album è agrodolce, teso tra blocchi di granito e carezze oniriche, perché se da una parte la solidificazione del riff di Tony Iommi arriva a toccare livelli di freddezza e di cupezza inarrivabili (quindi se c’è un profilo di semplificazione in quest’album, esso consiste in un suono sempre più omogeneo e monolitico), dall’altra ci sono sempre momenti di stasi paludosa (e potremmo citare i due intermezzi tra leggiadri arpeggi e sonorità medievali, ma anche le pozzanghere sparse come incisi nei brani), che porgono il fianco alla piacevole contemplazione, o all’ estraniazione, che è il filo conduttore del disco, che ha a tema sin dal titolo, gli effetti psicotropi delle droghe che rendono chi le assume, creatore della propria realtà, signore del proprio mondo. L’introduttiva “Sweet Leaf” (una dichiarazione d’amore per la foglia = la marijuana) torna a parlare di droghe, di desiderio di fuga, e lo fa tra la cerimonia nera di Ozzy, e l’incedere terroristico dell’apocalisse di percussioni, prima come al solito atmosferiche e subdole, poi esplicitamente riecheggianti il disastro naturale, quasi si volesse cogliere l’ambivalenza della natura, così come l’ambivalenza dell’estraniarsi dalla natura stessa, tra la tranquillità oppiacea e l’ebbra violenza che non puoi controllare ne, tanto meno, dominare. In una visione lucida e comparata, in definitiva, ‘Master Of Reality’ è il primo album dei Sabbath che non ricorre ad espedienti per invadere le classifiche, non ci sono pezzi facili, non fu rilasciato nessun singolo, prova che tutto il mondo era pronto a mangiare quel pane duro, anzi, che la formula era una cosa sicura su cui puntare, infatti non c’è un solo pezzo in cui la band provi a prendere le distanze da quanto fatto in passato, in “After Forever” (la quintessenza dell’offensiva contro i bigotti) il tutto è solo leggermente accelerato rispetto alla media (oppure è come fare una media aritmetica tra “War Pigs” e “Paranoid”) mentre le suggestioni acustiche di “Solitude” sono solo un tentativo di bissare “Planet Caravan”. Non c’è pezzo di questo platter, che l’ascoltatore dell’epoca non si poteva già aspettare già ascoltando ‘Paranoid’. Poi c’è la leggendaria “Into The Void”, semplicemente storica, che fa del disastro ambientale una proposta stilistica e poetica: è il disastro che diventa musica, è questa la natura che si anima e urla.

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