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DREAM THEATER

Quella del 27 è una serata calda di un magnifico Ottobre romano. La promessa di un apertura cancelli del Palalottomatica per le 17:00 viene tradita e tutti quanti si attende le 18:15 per assistere al festival del prog concepito dal diabolico (ne inventa sempre una più del diavolo) Mike Portnoy. Ad essere onesti, nonostante le code iad ogni ingresso del palazzetto, una volta all’interno non mi ritrovo davanti al tutto esaurito e il settore del primo anello nel quale mi trovo risulta abbastanza deserto (si riempirà completamente solo all’ingresso dei Dream in piena nottata). Il Progressive Nation 2009 inizia con i canadesi Unexpect che, con una formazione a sette, presentano una setlist di canzoni tiratissime che, se di fondo hanno una ritmica abbastanza prog, sembrano più assimilabili al gothic black metal (cantati growl, tuniche da prete del bassista e del chitarrista, voce femminile in rigorosa tenuta goth). Piacevoli gli incastri del violino ed impressionante il lavoro del bassista Zircon (a mio parere protagonista indiscusso insieme al violinista Borboën). Disturbante l’impasto sonoro “regalatoci” dal mix al risparmio oltre che dall’acustica pessima del Palalottomatica. In mezz’ora di esibizione non si placa la domanda che mi distrae di tanto in tanto dal gustarmi l’esibizione del combo canadese: ma perché scegliere un gruppo così per un festival dal nome altisonante come Progressive Nation? Superfluo sarebbe snocciolare la sequenza di nomi, ben altri nomi, di gruppi che non tanto avrebbero meritato quanto sarebbero stati meno fuori luogo in un contesto come questo che vede l’ingresso del secondo gruppo, gli americani Bigelf capitanati dal cantantee keyboardist Damon Fox. Qui è un tripudio di hammond, mellotron, suoni vintage, suite deppurpleiane sostenute dal look settanti ano e volutamente freak del quartetto. Bravo Fox e funambolico il batterista Froth. Un'altra mezz’ora, che era stata introdotta in maniera gustosamente divertente da un estratto della Imperial March tratta dalla colonna sonora di quel mito che è Guerre Stellari, passa questa volta assai più velocemente (sarà perché più gradita al sottoscritto?) e mentre il management del gruppo distribuisce poster nel parterre iniziano ad abbassarsi le luci per l’ingresso della prima big-band della serata: gli Opeth. A questo punto della serata l’arena del palasport romano inizia a riempirsi seriamente (Opeth e Dream Theater sono chiaramente i gruppi più attesi e più acclamati del festival itinerante) e gli svedesi vengono accolti calorosamente dal pubblico romano. L’impatto con la musica degli Opeth è sicuramente facilitato dalla prima nota evidente: il pubblico ha soppresso il precedente uomo dietro al mix o semplicemente l’equalizzazione professionale è una scelta voluta solo per le due ultime bands. Propendo per la seconda. Se è stato ostico approcciarsi agli Unexpect e ai Bigelf (che sicuramente meriteranno un ascolto serio della rispettiva produzione discografica) con gli Opeth tutto fila liscio per l’oretta di buon progressive death metal inframmezzata qua e là dai brevi siparietti di Mikael Åkerfeld (simpatico il tentativo di screditare Portnoy agli occhi del pubblico accusandolo di preferire la pizza svedese a quella italiana e generando l’ovvia ilarità tra le fila di un Palalottomatica sempre più pieno). Il quartetto svedese offre musicalmente un ottima prova di se spaziando dalle sonorità dell’ultimo Watershed alle songs del recente passato anche se lo show risulta un tantino freddo soprattutto se paragonato a quello che segue che, in termini di feeling e feedback del pubblico, non ha eguali. I Dream si fanno attendere parecchio, forse troppo al punto che, superata la mezz’ora di attesa seguita allo show degli Opeth, rimane l’amaro in bocca nel pensare che parte di quel tempo sarebbe stato riempito benissimo con qualche altro bis. Le luci si abbassano mentre sfuma il piacevole sottofondo musicale del repertorio dei Dream Theater eseguito per sola chitarra acustica e voce femminile (più volte doppiata dal pubblico impaziente) e sul telone nero che ha fatto da fondale alle tre band che li hanno preceduti compaiono le sagome retroproiettate della band in stile videoclip “Boys don’t cry,” che il grande regista Tim Pope utilizzò per il singolo degli altrettanto grandi Cure di Robert Smith, più volte cannibalizzato da altre band. Il gruppo è in piena forma e, senza soluzione di continuità, snocciola una dopo l’altra le hit tratte dall’ultimo Black Clouds & Silver Linings che si integrano perfettamente con capolavori immortali come la Take The Time (che vede un iniziale performance “canora” del gigionesco Portnoy) di Images and Words piuttosto che la sentita Hollow Years presa da Falling Into infinity (qui presentata, ad onor del vero, con un brutto assolo elettrico infilato da Petrucci con un gusto assai dubbio) senza dimenticare Erotomania o Voices dal seminale Awake. A fare da incredibile collante all’esibizione degli idoli del progressive metal è sicuramente il lavoro eccellente che viene proiettato nel maxischermo e che meriterebbe una pubblicazione come bonus a qualche prossimo dvd della band: oltre ad inquadrare tutti i musicisti durante gli assoli, nel corso dei giochetti di Mike Portnoy e della simpatica lotta all’ultimo virtuosismo di Rudess con il suo simpatico avatar (una delle novità di questo tour) , un filmato in animazione 3D riunisce tutto l’artwork dei dieci album della band (in realtà non mi pare di ricordare nulla riferibile a When Dream and Day Unite) che per l’appunto si “anima” sotto il nostro sguardo! Insomma per dirla tutta ci ritroviamo a camminare nella camera da letto di Images and Words piuttosto che assistere insieme al bambino sulla cover dell’ultimo album al passaggio degli elefanti di Black Clouds & Silver Linings, esploriamo il volto sfaccettato di Metropolis pt.2 o ci immergiamo nelle acque di Falling into Infinity e tutto questo accompagnati da una colonna sonora che non ci consente di tirare il fiato. Chiude a mo di bis di un concerto che supera di poco l’ora e mezza la bella suite The Count of Tuscany dotata anch’essa di relativo cortometraggio che contribuisce ad aumentare l’effetto inquietante del racconto di Petrucci. Sono passate da poco le 23 quando, insieme alla fiumana di spettatori accorsi a godersi l’evento, ritorno a respirare l’aria fresca di questa magnifica nottata romana. Ci sarebbe ancora molto da raccontare, come dell’entusiasmo di un gruppo di quindicenni (o giù di lì) completamente griffati Dream Theater e inneggianti con striscioni al buon James LaBrie…ma mi auguro che alcuni scatti dalla serata possano rendere giustizia al mini-festival del prog voluto dal virtuoso e burlone Mike Portnoy.

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